La sostenibilità – cioè la capacità di mantenere nel tempo un equilibrio ambientale, economico e sociale, senza pregiudicare gli equilibri futuri – è diventata in questi anni una parola d'ordine. Purtroppo, tutte le parole che assumono un forte significato simbolico rischiano di diventare dei modi di dire, delle retoriche, se non addirittura degli alibi.
È difficile, ma è necessario, dare a questo concetto dei contenuti precisi ed esigenti. È stato coniato un nuovo termine, Antropocene, per indicare un'era nella quale l'impatto dell'attività umana sulla Terra, l'unica che abbiamo, genera conseguenze geologiche sull'intero pianeta. Temi come il riscaldamento globale e l'effetto serra, ma anche come le pandemie o le malattie che sono conseguenza dell'inquinamento, interrogano un modello di sviluppo predatorio, dissipativo, che l'umanità ha adottato come se non ci fosse un domani.
Il problema è che questo domani è già diventato oggi, ed è una eredità imbarazzante che lasceremo alle giovani generazioni e alle generazioni future.
Abbiamo avuto un brusco risveglio su uno sviluppo che forse non dovremmo ostinarci a chiamare progresso, che ha bisogno di combustibili fossili e di energia nucleare e dipende da materie prime scarse.
Continuare a produrre e a consumare senza farsi troppe domande ha determinato squilibri di natura ambientale, sociale ed economica, ma anche guerre, sfruttamento di suolo, di animali, di piante (e di persone, prima di tutto di esseri umani), perdita di biodiversità. Stiamo, metaforicamente, tagliando il ramo sul quale siamo seduti.